Tratto da: “Vincere le ossessioni. Capire e affrontare il Disturbo Ossessivo-Compulsivo”
di Gabriele Melli – Centro Studi Erickson Editore, Trento
Psicoterapia cognitivo-comportamentale
La psicoterapia cognitivo-comportamentale (PCC) costituisce il trattamento psicoterapeutico di elezione per bambini, adolescenti e adulti con disturbo ossessivo. Aiuta i pazienti ad internalizzare una strategia per resistere al DOC che avrà effetti benefici a breve e a lungo termine.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale è una forma di trattamento psicologico ormai molto diffusa perché è:
– Scientificamente fondata. È stato dimostrato attraverso studi controllati che i metodi cognitivo-comportamentali costituiscono una terapia efficace per numerosi problemi di tipo clinico. La PCC è efficace almeno quanto gli psicofarmaci nel trattamento della depressione e dei disturbi d’ansia (compreso il DOC), ma assai più utile nel prevenirne le ricadute.
– Orientata allo scopo. La PCC è più orientata ad uno scopo rispetto a molti altri tipi di trattamento. Il terapeuta cognitivo-comportamentale, infatti, lavora insieme al paziente per stabilire gli obiettivi della terapia, formulando una diagnosi e concordando con il paziente stesso un piano di trattamento che si adatti alle sue esigenze. Si preoccupa poi di verificare periodicamente i progressi in modo da controllare se gli scopi sono stati raggiunti.
– Pratica e concreta. Lo scopo della terapia si basa sulla risoluzione dei problemi psicologici concreti. Alcune tipiche finalità includono la riduzione dei sintomi depressivi, l’eliminazione degli attacchi di panico e della eventuale concomitante agorafobia, la riduzione o eliminazione dei rituali compulsivi o delle malsane abitudini alimentari, la promozione delle relazioni con gli altri, la diminuzione dell’isolamento sociale, e cosi via.
– Centrata sul “qui ed ora”. Il ricordo del passato, come il racconto dei sogni, possono essere in alcuni casi utili per capire come si siano strutturati gli attuali problemi del paziente, ma molto difficilmente possono aiutare a risolverli. La PCC quindi non utilizza tali metodi come strumenti terapeutici, ma si preoccupa di attivare tutte le risorse del paziente stesso, e di suggerire valide strategie che possano essere utili a liberarlo dal problema che spesso lo imprigiona da tempo, indipendentemente dalle cause. La PCC è centrata sul presente e sul futuro molto più di alcune tradizionali terapie e mira ad ottenere dei cambiamenti positivi, ad aiutare il paziente a uscire dalla trappola piuttosto che a spiegargli come ci è entrato.
– Attiva. Sia il paziente che il terapeuta giocano un ruolo attivo nella terapia. Il terapeuta cerca di insegnare al paziente ciò che si conosce dei suoi problemi e delle possibili soluzioni ad essi. Il paziente, a sua volta, lavora al di fuori della seduta terapeutica per mettere in pratica le strategie apprese, svolgendo dei compiti che gli vengono assegnati volta volta. Nella PCC il terapeuta svolge un ruolo attivo nella soluzione dei problemi del paziente, intervenendo spesso e diventando talvolta “psico-educativo”. Ciò tuttavia non vuole assolutamente dire che il paziente assista ad una lezione nella quale si sente dire che cosa dovrebbe fare e come dovrebbe pensare; anch’egli, anzi, è stimolato ad essere più attivo possibile, un terapeuta di sé stesso, sotto la guida del professionista.
– Collaborativa. Paziente e terapeuta lavorano insieme per capire e sviluppare strategie che possano indirizzare il paziente alla risoluzione dei propri problemi. La PCC è infatti una psicoterapia breve basata sulla collaborazione tra paziente e terapeuta. Entrambi sono attivamente coinvolti nell’identificazione delle specifiche modalità di pensiero che possono essere causa dei vari problemi. Il paziente potrà scoprire di aver trascurato possibili soluzioni alle situazioni problematiche. Il terapeuta aiuterà il paziente a capire come poter modificare abitudini di pensiero disfunzionali e le relative reazioni emotive e comportamentali che sono causa di sofferenza.
– A breve termine. La terapia cognitivo-comportamentale è a breve termine, ogni qualvolta sia possibile. Il terapeuta è comunque generalmente pronto a dichiarare inadatto il proprio metodo nel caso in cui non si ottengano almeno parziali risultati positivi, valutati dal paziente stesso, entro un numero di sedute prestabilito. La durata della terapia varia di solito dai quattro ai dodici mesi, a seconda del caso, con cadenza il più delle volte settimanale. Problemi psicologici più gravi, che richiedano un periodo di cura più prolungato, traggono comunque vantaggio dall’uso integrato della terapia cognitiva, degli psicofarmaci e di altre forme di trattamento.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale, come dice il nome, è costituita da due tipi di psicoterapia che si integrano a vicenda: la psicoterapia comportamentale e la psicoterapia cognitiva.
La psicoterapia comportamentale, basata sui principi dell’apprendimento, mira ad insegnare alle persone a modificare i propri pensieri e sentimenti a partire dal cambiamento dei propri comportamenti. Tra le tecniche più usate della psicoterapia comportamentale per il DOC ci sono quelle dell’esposizione e prevenzione della risposta.
L’esposizione allo stimolo ansiogeno si basa sul fatto che l’ansia tende a diminuire spontaneamente dopo un lungo contatto con lo stimolo stesso. Così, le persone con l’ossessione per i germi possono essere invitate a stare in contatto con oggetti “contenenti germi” (es: prendere in mano dei soldi) finché l’ansia non è scomparsa. La ripetizione dell’esposizione consente la diminuzione dell’ansia fino alla sua completa estinzione.
Perché la tecnica dell’esposizione sia più efficace è necessario che sia affiancata alla tecnica di prevenzione della risposta, perché l’emissione dei rituali ostacola una sufficiente durata dell’esposizione e non consente l’estinzione dell’ansia condizionata. Nella prevenzione della risposta vengono sospesi, o inizialmente almeno rimandati, gli abituali comportamenti ritualistici che seguono alla comparsa dell’ossessione. Riprendendo l’esempio precedente, la persona con l’ossessione dei germi viene esposta allo stimolo ansiogeno e viene invitata a sforzarsi di non mettere in atto il suo rituale di lavaggio, aspettando che l’ansia svanisca spontaneamente.
Il soggetto, in pratica, viene istruito a fronteggiare lo stimolo temuto, sperimentare l’urgenza di mettere in atto i rituali e immediatamente bloccare l’emissione di tali comportamenti.
Si segue insomma il principio “guarda la paura in faccia e cesserà di turbarti”.
Negli anni ’90, alcuni teorici cognitivisti, tra cui P. Salkovskis e G. Steketee, hanno individuato le peculiarità che contraddistinguono i meccanismi cognitivi dei pazienti DOC, ovvero i loro particolari meccanismi di pensiero e di elaborazione dell’informazione. Poiché essi intervengono nella interpretazione e valutazione delle esperienze intrusive, devono essere modificati per favorire il processo terapeutico. Questo è l’obiettivo della psicoterapia cognitiva, che centra la sua attenzione sulla modificazione di tali processi di pensiero automatici e disfunzionali; in particolare:
– eccessivo senso di responsabilità: i pazienti con DOC, in particolar modo quelli che temono le conseguenze dannose sugli altri, piuttosto che su sé stessi, delle proprie trascuratezze, ritengono spesso che l’avere una qualunque influenza sull’esito di un determinato evento negativo equivalga all’esserne totalmente responsabile. Pensare che possa accadere qualcosa di negativo e non fare tutto il possibile per impedirlo sarebbe quindi, per queste persone, come esserne totalmente colpevoli nel caso in cui si avverasse;
– eccessiva importanza attribuita ai pensieri: per chi soffre di DOC, avere un pensiero in testa significa di per sé che esso è importante. Quasi tutti i pazienti ossessivo-compulsivi ritengono che avere certi pensieri negativi sia moralmente deplorevole, perché significherebbe desiderare o augurarsi che essi si avverino, e pericoloso, in quanto potrebbe avere un’influenza sul reale accadimento degli eventi; non riconoscono, insomma, che è normale avere preoccupazioni negative, soprattutto quando il nostro umore non è dei migliori, senza che ciò dica niente dei nostri desideri o della nostra natura, né influenzi la probabilità di accadimento degli eventi temuti;
– sovrastima della possibilità di controllare i propri pensieri: i pazienti DOC, non tollerando la presenza di pensieri negativi per i motivi sopra illustrati, fanno di tutto per contrastarli e liberarsi la mente, senza considerare che noi non possiamo decidere di non pensare a qualcosa e che abbiamo un controllo soltanto parziale sul nostro flusso di pensieri;
– sovrastima della pericolosità dell’ansia: l’ansia è un’emozione normale e non pericolosa; i sintomi fisici dell’ansia possono essere molto sgradevoli, ma non portano mai alla perdita di controllo del proprio comportamento e, prima o poi, tendono a scomparire spontaneamente anche se la persona non fa niente per tranquillizzarsi. I pazienti DOC, invece, tendono a confondere lo stato confusionale che l’ansia può indurre come segno di un imminente perdita di controllo o di “impazzimento” e a ritenere che il malessere fisiologico ad essa correlato aumenti all’infinito o rimanga stabile nel tempo, a tal punto da essere intollerabile o dannoso per l’organismo.
Trattamento farmacologico
La terapia farmacologica del DOC è stata caratterizzata storicamente dall’impiego dell’antidepressivo triciclico clomipramina (Anafranil). La clomipramina ha dimostrato una potenzialità terapeutica significativa fin dai primi studi clinici degli anni ’60, efficacia attualmente ben documentata, che ha spinto poi i ricercatori ad interessarsi ad un’altra famiglia di farmaci antidepressivi, gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina, caratterizzati dall’acronimo SSRI. Si tratta della fluovoxamina (Maveral, Dumirox, Fevarin), del citalopram (Elopram, Seropram), della sertralina (Zoloft), della fluoxetina (Prozac, Fluoxeren, Fluoxetina) e della paroxetina (Sereupin, Seroxat).
Queste due famiglie di farmaci hanno in comune, dal punto di vista del meccanismo d’azione, la capacità di potenziare la trasmissione nervosa mediata da uno dei più studiati neurotrasmettitori: la serotonina.
Vari studi hanno sottolineato la sostanziale equivalenza terapeutica della clomipramina e degli SSRI nel trattamento del DOC.
La tendenza, per avere un’efficacia anti-ossessiva delle molecole antidepressive, è all’uso di dosaggi che vanno verso quelli massimi consentiti per ciascuna molecola. Può essere necessario un periodo di tempo che va dalle dieci alle dodici settimane prima di ottenere una risposta clinica positiva, e ciò differenzia nettamente questo tipo di terapia farmacologica dalla terapia, per esempio, di un episodio depressivo, in cui il tempo di attesa per una risposta ai farmaci è assai minore.
Per quanto riguarda gli effetti collaterali dei farmaci, il trattamento con clomipramina può causare effetti indesiderati quali la secchezza delle fauci, la stipsi, la ritenzione urinaria, l’ipotensione ortostatica, la tachicardia, o la sedazione. Esiste, inoltre, un effetto a livello cardiaco con possibilità di aritmie e modificazioni elettrocardiografiche. In alcuni pazienti con problematiche cardiovascolari, ipertrofia prostatica o glaucoma, e più in generale nei pazienti anziani, l’uso della clomipramina appare difficile o sconsigliabile.
Per quanto riguarda gli antidepressivi SSRI, gli effetti collaterali sono sostanzialmente omogenei all’interno di questo gruppo, anche se non esattamente sovrapponibili tra composto e composto. I più frequenti sono quelli di tipo gastrointestinale come nausea, anoressia, diarrea, cefalea, disturbi sessuali (in particolare difficoltà a raggiungere l’orgasmo) o disturbi del sonno. Va detto, comunque, che sono farmaci generalmente ben tollerati, caratterizzati da una bassa tossicità e relativa sicurezza nel sovradosaggio.
L’efficacia dei farmaci antidepressivi SSRI e della clomipramina in questo disturbo è ben documentata, ma una percentuale di pazienti che può variare dal 30 al 40% non rispondono ai farmaci. Anche per i pazienti che rispondono in maniera significativa al trattamento farmacologico, la dimensione della risposta è abitualmente incompleta, con pochi pazienti che arrivano ad essere totalmente privi di sintomi.
Alla luce di tutto ciò sono state proposte numerose strategie farmacologiche che mirano a potenziare l’efficacia della terapia di primo livello. Troviamo quindi l’uso in combinazione di clomipramina e di un farmaco SSRI, della clomipramina somministrata per via endovenosa, che ha dimostrato di essere una terapia efficace per i pazienti che non rispondono al trattamento per via orale, o di antipsicotici atipici di ultima generazione, quali il risperidone (Risperdal, Belivon), l’olanzapina (Zyprexa), la quetiapina (Seroquel, Ketipinor) e l’aripiprazolo (Abilify). Questi ultimi, in associazione con clomipramina ed SSRI, vengono utilizzati più frequentemente in quei pazienti DOC con scarsa consapevolezza di malattia, oppure in quei pazienti affetti anche da un disturbo da tic.
Un’ultima considerazione deve essere fatta sulle tanto abusate benzodiazepine, cioè i cosiddetti tranquillanti (Tavor, Xanax, Lexotan, En, ecc.). Pur dando una momentanea attenuazione dell’ansia, tanto ricercata dai pazienti ossessivo-compulsivi, sono controindicate nel trattamento di tale disturbo, perché, oltre a dare dipendenza e assuefazione (necessità di aumentare costantemente il dosaggio per avere un’efficacia significativa), impediscono la comparsa dell’ansia durante l’esposizione agli stimoli ansiogeni e non consentono il processo di estinzione del condizionamento, che, come vedrete, è un elemento fondamentale su cui si basa il trattamento comportamentale.
In conclusione la prognosi del DOC è sicuramente migliorata, grazie all’affinamento delle strategie farmacologiche, ma sono necessarie terapie ad alti dosaggi per periodi prolungati e restano da affinare le strategie di intervento sui pazienti “resistenti” (quasi la maggioranza).